L'incontro con Fabio Volo avviene al terzo piano della libreria Mondadori di Piazza Duomo a Milano. Un paio di ragazze, con in mano il suo ultimo romanzo - Le prime luci del mattino - chiedono di lui per un autografo. Volo è in una saletta che mi attende. Scherza con alcuni del suo staff. Per essere un pomeriggio di dicembre veste leggero: una T-shirt grigia da cui si intravedono due tatuaggi. Il pantalone stazzonato e lo scarpone decisamente consumato in punta gli danno un'aria dimessa. La prima impressione è che Volo sembra uno qualunque: il ragazzo cresciuto e mite che non immagineresti seduto in cima a una montagna di cinque milioni di copie. A tanto ammonta il venduto complessivo dei suoi romanzi. Quello nuovo, che racconta di una donna insoddisfatta del proprio matrimonio, ha subito guadagnato la vetta delle classifiche respingendo gli attacchi di altri best-seller. Più che un fenomeno, Volo è una fenomenologia che va spiegata. Qualunque cosa tocchi - dalla radio al cinema, fino al romanzo - si trasforma in oro.
Come convive con il successo?
"Bene, anche se hanno cercato di farmi sentire in colpa. Le confesso però che non ero preparato alle attenzioni eccessive: sia a favore che contro. Ma poi ho concluso che sia gli uni che gli altri hanno lavorato per lo stesso risultato".
Quando ha iniziato a scrivere?
"Scrivo da quando ero molto giovane, ma ho cominciato a pubblicare all'età di 28 anni. Avevo un quaderno su cui inventavo delle storie. Poi è accaduto di poterle indirizzare alla radio, alla televisione, nei romanzi. Ho una grande immaginazione. Pensare una cosa e realizzarla mi fa star bene".
Quando scrive o ha scritto si consulta con altri?
"Faccio leggere i miei scritti ad alcuni amici di cui mi fido. Ma alla fine sono io che decido liberamente. L'ho imparato da mio padre che aveva una panetteria e mi parlava della "coscienza del forno": ti accorgi subito se il pane sfornato è buono o no".
Molto pragmatico.
"La mia vita è così. Quando penso, sono agevolato se faccio cose pratiche: se cammino, se cucino, se stucco il muro di casa. Insomma, non assumerei mai la posa del pensatore di Rodin. Provengo da una famiglia che usava più le mani che la testa".
La sua famiglia poteva essere un handicap.
"È vero. Con il senno di poi posso dire che dalla mia famiglia ho imparato cose che ho apprezzato col tempo. Non mi ha fatto mai sentire migliore o peggiore di quel che ero, non mi giudicava, mi ha assecondato nel rispetto delle persone e delle cose. È stato un modo per responsabilizzarmi. Anche quando molto giovane ho deciso di andarmene da casa".
Che età aveva?
"19 anni. Lavoravo con mio padre al panificio e a un certo punto ho detto basta. Lasciavo la mia famiglia in condizioni economiche precarie e sembrava che abbandonassi la nave che affondava. Non è stato facile: sia andarmene sia entrare in un nuovo mondo".
Cosa l'ha spinta a quella scelta?
"Il bisogno di rivalsa sociale e l'umiliazione che la mia famiglia e i miei amici hanno subito. Accorgersi della spocchia di certe persone che utilizzavano la cultura per tenerti a distanza, per farti capire che loro erano meglio di te, mi ha fatto montare la rabbia. E me ne sono andato. Per disperazione, per impotenza, perché non ne potevo più. Sapevo che uscendo da quel contesto era come se dicessi a loro: sono meglio di voi. Sono state dinamiche profonde, inquinate dall'amarezza e dalle incomprensioni. A quel punto tornare da perdente avrebbe significato dare soddisfazione a quelle persone che pensavano che sarei rimasto sempre un panettiere".
Cosa ha fatto nel momento in cui se ne è andato di casa?
"Per un po' sono rimasto a Brescia, dove sono nato, cercando lavoro nei bar e nelle discoteche. Poi ho iniziato a cantare e siccome ero anche bravino è arrivato il primo contratto con una casa discografica; poi la radio e a seguire tutto il resto".
Sapeva già allora cosa voleva fare da grande?
"Per niente. Non sapevo suonare uno strumento, non conoscevo le lingue. Nessuna idea chiara. Solo una grande determinazione. Ero posseduto da un fuoco, ma non era sacro".
Che intende dire?
"Che non avevo l'ambizione dell'artista. La mia era più una necessità di cambiamento. E poi, quando ho capito che potevo esprimermi l'ho fatto. Con qualche difficoltà di adattamento. Ricordo che arrivare a Milano fu un passo importante. Ma all'inizio tendevo a imitare come si vestivano e parlavano certe persone che avevo cominciato a frequentare. Però non mi piaceva. Mi sono sempre sentito inadatto, fuori posto. Sia prima, quando non ero nessuno, che dopo, quando ce l'ho fatta. A volte vivo con la sensazione di essere ciò che non sono. Non sono uno scrittore, un attore, un cantante, almeno non in senso stretto".
E' un'ammissione pericolosa.
"Intendo dire che non appartengo a nessun gruppo, non ho una divisa. Sono un battitore libero che grazie alla propria intelligenza e furbizia ha fatto dei propri difetti un punto di forza. E questo mi ha permesso di dare dignità a me stesso e alle persone cui voglio bene, a cominciare dalla mia famiglia".
Cosa vuol dire non sentirsi scrittore o attore?
"Sono più vicino a uno che racconta delle storie. Anche quando giro un film mi sembra che l'attore sia un altro mestiere. Anche quando parlo delle mie letture avverto un senso di inadeguatezza. Ma il punto è che non voglio apparire diverso da come sono".
Si tratta di onestà o insicurezza?
"Direi insicurezza. Il punto è però avere il coraggio di dichiararla, e questo è onestà".
Ritiene che anche i suoi libri siano onesti?
"Penso di sì. Nel senso che ci sono soprattutto io. Non ho intuizioni geniali o punti di vista sconvolgenti. Racconto quello che sento e vedo. Sono quella roba lì. Non posso fare di meglio, ma al tempo stesso non sono interessato ad altro. La cosa di cui sono particolarmente soddisfatto è che ho portato in libreria gente che non vi avrebbe mai messo piede. Parte del successo è trasmettere un po' di autenticità e lealtà. Anche se il rapporto con il mondo esterno è più complicato".
In che senso?
"C'è una fascia di persone, di critici, di blog che continuano ad attaccarmi. A dirmi non sei dei nostri, non dovevi permetterti di scrivere, tu sei e sarai sempre il panettiere di Brescia. È una condanna. Giusto o sbagliato, bello o brutto, banale o eccitante, io racconto il mio mondo".
Le danno fastidio le critiche?
"Distinguo sempre tra la critica al libro, che per me va benissimo, dall'attacco alla persona. Io per esempio non faccio pubblicità. Potrei farne e guadagnare milioni di euro. Ma lo trovo sleale, perché mi sembrerebbe di vendere l'affetto dei miei lettori a un'azienda. Credo che questo senso di lealtà mi sia stato trasmesso dalla mia famiglia. È importante e vorrei che anche i critici ne fossero dotati. Chiunque scrive pensa di realizzare Delitto e castigo. Anche a me piacerebbe essere Philip Roth o Romain Gary. Ma alla fine sono solo Fabio Volo".
Torna spesso a Brescia?
"No, e quando vado ci sto poco. La mia vita è altrove. Vivo cinque o sei mesi l'anno a New York e a Parigi".
Come si sente fuori dall'Italia?
"Là sono una persona, qui un personaggio".
Lo dice quasi con un senso di infelicità.
"La chiamerei malinconia che è poi non sentirsi mai nel posto giusto. Del resto questo è il motore di tutte le cose che faccio. Sono malinconico da sempre e lo esprimo con un'esagerata allegria".
La stupisce il successo enorme che ha?
"Un po' sì, anche per quel senso di disagio che mi fa pensare di non essere accettato da tutti. Non pensavo di arrivare dove sono arrivato. Poi si è molto ricamato. Si è perfino ipotizzato che i libri non li scriva io, che li copio e che alla fine tutto questo successo è un gran mistero. Io lo spiego con il duro lavoro e con ciò che desidero. E poi cerco di riconoscermi negli altri, nelle loro storie".
Si descrive come uno qualunque?
"Lo sono oggettivamente anche se non lo sono socialmente".
Perché ha cambiato cognome?
"Quando arrivai a Milano scrissi una canzone che si chiamava "Volo". E a Radio Capital ero diventato "Fabio della canzone Volo". A quel punto Cecchetto mi disse: chiamati Volo che è meglio di Bonetti".
Sono stati duri gli inizi?
"Durissimi e sgradevoli. Non conosco la violenza, quella vera. Vengo dalla strada, ma non di quelle cattive. E non sono stato picchiato da bambino. Però ho conosciuto la violenza sotto forma di arroganza e l'ho vista ripercuotersi sulle persone che amavo e che ho sempre sognato di poter un giorno difendere. C'è una parte di mondo che è considerata di serie B. Anche quelli che recensiscono i miei libri spesso trattano i miei lettori come gente di serie B. A me piacerebbe scavare nelle vite di coloro che danno giudizi veloci e feroci e lasciano ferite che non si cancellano".
Pensa mai che le cose finiscano?
"Allude al mio lavoro?".
Sì al fatto che il successo può improvvisamente voltare le spalle.
"Non succede. Mi sembrerebbe strano. Comunque sarebbe inaspettato".
fonte: La Repubblica online
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lunedì 12 dicembre 2011
Facevo il panettiere, ora scrivo: riscatto un mondo di serie B
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... già solo l'idea che Volo consideri il mestiere del panettiere, un mestiere di serie "B"... e che dica che tornare indietro da perdente avrebbe significato dare soddisfazione a quelle persone che pensavano sarebbe rimasto sempre e solo un panettiere, non gli fa certo onore!!! Anzi: in questa intervista emerge ancor più il suo bisogno di emergere, di dimostrare agli altri (o forse solo a se stesso) di essere riuscito a diventare qualcuno... Ovvero, mettersi sullo stesso piano di quella gente spocchiosa dalla quale egli fuggiva...
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