giovedì 29 dicembre 2011

Sull'abolizione dell'Ordine dei Pubblicisti... parte 2

Nell’imbarazzato silenzio del convitato di pietra, l’FNSI, e di quello di legno, l’OdG, la soppressione dei pubblicisti sta diventando una realtà. Le ipotesi sui rimedi e le alternative fioccano. Mentre tanti professionisti di fatto rischiano di finire per strada assieme ai dopolavoristi.

Che la colpa sia dell’Ue, che ha preteso la norma; di Berlusconi, che l’ha varata; o di Monti, che l’ha approvata, il risultato non cambia: a partire dal prossimo agosto, se non interverranno modifiche (siamo sempre in Italia, non dimentichiamocelo), i pubblicisti sono fritti. Aboliti, finiti, kaputt.

Diconsi pubblicisti, giova ricordarlo, quei giornalisti che, ai sensi della legge 69 del 1963, svolgono attività non occasionale e retribuita anche se contestualmente ad altre professioni o impieghi. Ovvero 80mila dei 110mila iscritti attualmente all’albo professionale.
Una falcidia insomma. Un doveroso e sano ripulisti secondo alcuni, un’infame e indiscriminata pulizia etnica secondo altri.

Ho già descritto qui, in un post di alcuni giorni orsono, lo scenario che si apre e il ventaglio delle possibili, teoriche soluzioni.
Ma naturalmente, nel frattempo, il variegato mondo dei colleghi non è rimasto fermo. Agitandosi viceversa parecchio. E portando alla luce, mediante le diverse posizioni assunte, anche l’anima ormai estremamente variegata di quella sfortunata categoria. Tanto variegata da vedere i pubblicisti porsi, in proposito, su punti di vista (e interessi) spesso diametralmente opposti.

L’interrogativo che inquieta però non solo le notti di chi è già iscritto all’elenco dei pubblicisti, ma anche di quelle di chi è in itinere per diventarlo (sono necessari 24 mesi di attività documentata e retribuita, nonchè la dimostrazione di un’acquisita capacità professionale), è il seguente: e ora che facciamo?

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