In principio era solo un numero. Come tanti. Chi ci faceva caso? Poi, quella cifra incastrata tra il 16 e i 18, creò il pretesto per battute dozzinali. Quelle che riempiono soprattutto i luoghi di lavoro, quando tra colleghi si fa finta di essere amici.
Col tempo quel numero è diventato qualcosa di più. Se qualche balordo decreto lo eliminasse dalla matematica vigente non sarei più lo stesso. Ebbene si, mi mancherebbe. Tantissimo.
Già, perché tra noi due ormai c’è, come dire, uno stretto legame. Che va oltre la cabala, funeste previsioni, riti maniacali e quanto la sua fama si porta dietro.
È una sfida continua. Riservata, con ferree regole, solo a contendenti leali. Improbabili, ma seri, Cavalieri dell’Immaginifico. La prima regola? Credere senza dirlo.
La seconda: dire, senza credere. Salvare l’apparenza. Tutto quello che succede con gli oroscopi.
Forse con un pizzico di magia e due etti di superficialità in meno.
L’attenzione. Ah no, quella non deve mai venir meno. Immaginate quel numero con la testa di un saraceno. Siete in sella ad un cavallo.
Al galoppo. Ecco, la testa del saraceno è sempre più vicina alla punta della vostra mente. Attenzione, massima attenzione al gatto a nove code che farà schioccare all’altezza della testa...
Anche i dettagli sono importanti. Alludo a multipli, sottomultipli. Qualsiasi equazione il cui risultato possa essere associato a quel numero. Molto dipende anche dalla capacità di convivere con una gradualità di emozioni che, in fondo, quel numero, senza preavviso, o al contrario con eccessivi preallarmi, di solito ingenera. È in questi casi che i “prescelti” dall’ignoto reggitore di quel segno, spontaneamente, trasformano la miscredenza in buffe liturgie.
Non sono riti. Perché stanno tra il dire e il fare. Laddove il movimento non sempre è comandato dal cervello. O se lo è, riesce comunque a rubare alcuni secondi di completa anarchia. Se il tiranno lo mette ai ferri, reagirà proprio come uno schiavo, obbligato a pulire le latrine. Dovrà farlo. Lo farà. Non si saprà mai perché.
Ecco, dunque, che questo numero è catturato dagli occhi, su un cartello autostradale. Indica i chilometri che separano questo punto dalla prossima area di servizio. Il saraceno è lì, davanti, sotto forma di immenso autotreno. Le dita della mano sinistra si chiudono nel mezzo lasciando tesi solo indice e mignolo. Con questa ridicola, assurda, forchetta di carne, titillo l’asta delle marce. Da destra a sinistra. Rispettando rigorosamente il verso antiorario. Poi toccherà alla banale toccata e fuga sui genitali. Il finale è decrescente: basterà sfiorare, dall’ interno naturalmente, il tetto dell’auto. Il chilometro delle Bermude nel frattempo sarà stato oltrepassato. Metti di non ricordare se hai spento il gas a casa. Se hai staccato il ferro da stiro. Se la piastra elettrica del forno era ancora rovente. E metti di esser in viaggio, da pochi minuti. Certi controlli bisogna farli. Subito. Non è pensabile rinviarli al momento del ritorno. L’ansia rovinerebbe, comunque, la giornata, l’appuntamento, il viaggio.
Nel rapporto con quello che, per comodità, d’ora in poi definirò Monsieur Vixì, occorre tener presente, oltre alle regole in parte citate, anche un codice d’onore. Vixì va rispettato. Sempre. Altrimenti è meglio non parlarne mai. Trattarlo alla stregua di un numero qualsiasi. Ma attenti: se solo per un istante la mente fisserà Vixì più di altri, potrebbero insorgere complicazioni. Che poi solitamente si scaricano, proprio addosso al nostro Monsieur. Colpa sua se...
Nei meandri del cervello, questo di tipo d’interconnessioni, assomiglia agli interruttori del sottoscala. Occhio a quello che si tocca. Se non si sa dove e perché toccare meglio star fermi. Vixì, in questo momento, lo so, è n che guarda. Quante storie, vere, presunte, false, sul suo conto. Del resto è lo stesso Vixì a non prestar attenzione, come dovrebbe, agli alibi. Come non imputargli tutto quanto succede quel giorno? E se coincide con un venerdì? Come non pensare subito a lui, quando, a quell’ora del tardo pomeriggio, accadesse un fatto spiacevole? E come non credergli, imprecando, se è appena uscito sulla ruota del casinò? La tecnica che gli è abituale: l’agguato. Entra furtivamente nei pensieri. Anche in quelli più banali. Se ne va solo dopo aver lasciato il seme del dubbio. Quel seme germoglierà. Non subito. Non dipende dall’acqua. Nascerà una specie di felce. Di quelle che fanno il solletico. Ondeggiando, controvento. E suggerirà il da farsi. Non si tratterà di imperativi. Solo consigli. Buoni consigli.
Vixì non crede a queste cose. La sua esistenza prescinde da questa sorta di combinazioni. Vixì comunque esiste. C’è.
... Avevo calpestato più di sedici gradini. Tutti con i garretti di chi spinge dal basso verso l’alto. Li avevo anche contati. E mi trovai davanti a lui, a Vixì. Sfottente. Sicuro. Inafferrabile.
“Che fai? Salti questo turno di marmo perché, casualmente, sono tra i tuoi passi?”
Una sfida. Non si poteva far finta di niente.
Vixì ebbe un impercettibile dubbio sui muscoli facciali. Non s’avvide della nebulosa alla quale avevo apparecchiato la tavola. La memoria. L’irrazionale, che si fonde col razionale. E viceversa. Avevo pigiato il tasto dell’incoscienza. Non dopo aver avuto la sicurezza che fosse compreso tra i primi sedici pulsanti a disposizione. Un tasto a caso, comunque. Al quale mi affidai ciecamente.
Vada come deve andare.
Vixì era in attesa. Una (sua) goccia di sudore in più. Dopo le sedici finite sul gradino. Avrebbe potuto far scivolare. Ma ero già sul passamano. Impegnato a superare quell’ostacolo tra me ed un mondo più sicuro. Rischiavo l’osso del collo in quell’incomoda posizione. Lo sapevo, lo sentivo. Così come avvertivo l’odore di un succo di frutta (albicocca?). Una bottiglietta, finita in frantumi, proprio su quel gradino.
Vixì lo sapeva. Sapeva di quello stupido trucco da circo. Ed aspettava che le mie mani sudate scivolassero da quel passamano ancora appiccicoso, Si, c’erano anche su quel pezzo di legno tracce di mani che avevano tentato di pulire. Per poi abbandonare l’operazione, quando il sangue s’ era mescolato all’arancione zuccherato.
Uscì una donna, dalla porta del secondo piano. “Scusi, non sono riuscita a mettere a posto. Ma faccio in un attimo. Prendo lo straccio e arrivo”.
Vixì si mise a ridere. Una risata simpatica. Di quelle che, di solito, sdrammatizzano. Suadente... Mi stavo rilassando... ma non lasciai il passamano,
Tanto, ci si sarebbe rivisti.
Au revoir, Monsieur Vixì... au revoir...
di Cornelio Galas - vietata ogni forma di riproduzione
Col tempo quel numero è diventato qualcosa di più. Se qualche balordo decreto lo eliminasse dalla matematica vigente non sarei più lo stesso. Ebbene si, mi mancherebbe. Tantissimo.
Già, perché tra noi due ormai c’è, come dire, uno stretto legame. Che va oltre la cabala, funeste previsioni, riti maniacali e quanto la sua fama si porta dietro.
È una sfida continua. Riservata, con ferree regole, solo a contendenti leali. Improbabili, ma seri, Cavalieri dell’Immaginifico. La prima regola? Credere senza dirlo.
La seconda: dire, senza credere. Salvare l’apparenza. Tutto quello che succede con gli oroscopi.
Forse con un pizzico di magia e due etti di superficialità in meno.
L’attenzione. Ah no, quella non deve mai venir meno. Immaginate quel numero con la testa di un saraceno. Siete in sella ad un cavallo.
Al galoppo. Ecco, la testa del saraceno è sempre più vicina alla punta della vostra mente. Attenzione, massima attenzione al gatto a nove code che farà schioccare all’altezza della testa...
Anche i dettagli sono importanti. Alludo a multipli, sottomultipli. Qualsiasi equazione il cui risultato possa essere associato a quel numero. Molto dipende anche dalla capacità di convivere con una gradualità di emozioni che, in fondo, quel numero, senza preavviso, o al contrario con eccessivi preallarmi, di solito ingenera. È in questi casi che i “prescelti” dall’ignoto reggitore di quel segno, spontaneamente, trasformano la miscredenza in buffe liturgie.
Non sono riti. Perché stanno tra il dire e il fare. Laddove il movimento non sempre è comandato dal cervello. O se lo è, riesce comunque a rubare alcuni secondi di completa anarchia. Se il tiranno lo mette ai ferri, reagirà proprio come uno schiavo, obbligato a pulire le latrine. Dovrà farlo. Lo farà. Non si saprà mai perché.
Ecco, dunque, che questo numero è catturato dagli occhi, su un cartello autostradale. Indica i chilometri che separano questo punto dalla prossima area di servizio. Il saraceno è lì, davanti, sotto forma di immenso autotreno. Le dita della mano sinistra si chiudono nel mezzo lasciando tesi solo indice e mignolo. Con questa ridicola, assurda, forchetta di carne, titillo l’asta delle marce. Da destra a sinistra. Rispettando rigorosamente il verso antiorario. Poi toccherà alla banale toccata e fuga sui genitali. Il finale è decrescente: basterà sfiorare, dall’ interno naturalmente, il tetto dell’auto. Il chilometro delle Bermude nel frattempo sarà stato oltrepassato. Metti di non ricordare se hai spento il gas a casa. Se hai staccato il ferro da stiro. Se la piastra elettrica del forno era ancora rovente. E metti di esser in viaggio, da pochi minuti. Certi controlli bisogna farli. Subito. Non è pensabile rinviarli al momento del ritorno. L’ansia rovinerebbe, comunque, la giornata, l’appuntamento, il viaggio.
Nel rapporto con quello che, per comodità, d’ora in poi definirò Monsieur Vixì, occorre tener presente, oltre alle regole in parte citate, anche un codice d’onore. Vixì va rispettato. Sempre. Altrimenti è meglio non parlarne mai. Trattarlo alla stregua di un numero qualsiasi. Ma attenti: se solo per un istante la mente fisserà Vixì più di altri, potrebbero insorgere complicazioni. Che poi solitamente si scaricano, proprio addosso al nostro Monsieur. Colpa sua se...
Nei meandri del cervello, questo di tipo d’interconnessioni, assomiglia agli interruttori del sottoscala. Occhio a quello che si tocca. Se non si sa dove e perché toccare meglio star fermi. Vixì, in questo momento, lo so, è n che guarda. Quante storie, vere, presunte, false, sul suo conto. Del resto è lo stesso Vixì a non prestar attenzione, come dovrebbe, agli alibi. Come non imputargli tutto quanto succede quel giorno? E se coincide con un venerdì? Come non pensare subito a lui, quando, a quell’ora del tardo pomeriggio, accadesse un fatto spiacevole? E come non credergli, imprecando, se è appena uscito sulla ruota del casinò? La tecnica che gli è abituale: l’agguato. Entra furtivamente nei pensieri. Anche in quelli più banali. Se ne va solo dopo aver lasciato il seme del dubbio. Quel seme germoglierà. Non subito. Non dipende dall’acqua. Nascerà una specie di felce. Di quelle che fanno il solletico. Ondeggiando, controvento. E suggerirà il da farsi. Non si tratterà di imperativi. Solo consigli. Buoni consigli.
Vixì non crede a queste cose. La sua esistenza prescinde da questa sorta di combinazioni. Vixì comunque esiste. C’è.
... Avevo calpestato più di sedici gradini. Tutti con i garretti di chi spinge dal basso verso l’alto. Li avevo anche contati. E mi trovai davanti a lui, a Vixì. Sfottente. Sicuro. Inafferrabile.
“Che fai? Salti questo turno di marmo perché, casualmente, sono tra i tuoi passi?”
Una sfida. Non si poteva far finta di niente.
Vixì ebbe un impercettibile dubbio sui muscoli facciali. Non s’avvide della nebulosa alla quale avevo apparecchiato la tavola. La memoria. L’irrazionale, che si fonde col razionale. E viceversa. Avevo pigiato il tasto dell’incoscienza. Non dopo aver avuto la sicurezza che fosse compreso tra i primi sedici pulsanti a disposizione. Un tasto a caso, comunque. Al quale mi affidai ciecamente.
Vada come deve andare.
Vixì era in attesa. Una (sua) goccia di sudore in più. Dopo le sedici finite sul gradino. Avrebbe potuto far scivolare. Ma ero già sul passamano. Impegnato a superare quell’ostacolo tra me ed un mondo più sicuro. Rischiavo l’osso del collo in quell’incomoda posizione. Lo sapevo, lo sentivo. Così come avvertivo l’odore di un succo di frutta (albicocca?). Una bottiglietta, finita in frantumi, proprio su quel gradino.
Vixì lo sapeva. Sapeva di quello stupido trucco da circo. Ed aspettava che le mie mani sudate scivolassero da quel passamano ancora appiccicoso, Si, c’erano anche su quel pezzo di legno tracce di mani che avevano tentato di pulire. Per poi abbandonare l’operazione, quando il sangue s’ era mescolato all’arancione zuccherato.
Uscì una donna, dalla porta del secondo piano. “Scusi, non sono riuscita a mettere a posto. Ma faccio in un attimo. Prendo lo straccio e arrivo”.
Vixì si mise a ridere. Una risata simpatica. Di quelle che, di solito, sdrammatizzano. Suadente... Mi stavo rilassando... ma non lasciai il passamano,
Tanto, ci si sarebbe rivisti.
Au revoir, Monsieur Vixì... au revoir...
di Cornelio Galas - vietata ogni forma di riproduzione
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