Un titolo cui si vorrebbe aggiungere un punto interrogativo. E un sospiro. Come una manciata di dubbi. «Perché scrivere», invece, è un titolo affermativo. Una dichiarazione di complicità e provocazione tra l'autrice inglese Zadie Smith e coloro che, nei secoli, hanno sentito scorrere il più pungente dei punti di domanda tra vene, pennino e tastiera.
Non gli scribacchini, orgogliosi, secondo i versi insofferenti di Pope, «di una distesa di righe inconsistenti». Ma gli scrittori, quelli bravi, di talento, grandi o «ideali». Legittimi alchimisti di lettere e punteggiatura, nei loro accoppiamenti, talvolta impudichi, con pensieri, opere e missioni d'arte. Quei traditori di se stessi che lasciano naufragare il «sogno del romanzo perfetto» imbarcando il proprio io fluido, ingombrante, eppure vitale. Che fanno dello scrivere una scienza inesatta, in cui tecnica e sistemi sottostanno alla personalissima legge dell' «esprimere con precisione il proprio modo di essere nel mondo».
di Silvia Giuberti - Il Sole 24 Ore
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Non gli scribacchini, orgogliosi, secondo i versi insofferenti di Pope, «di una distesa di righe inconsistenti». Ma gli scrittori, quelli bravi, di talento, grandi o «ideali». Legittimi alchimisti di lettere e punteggiatura, nei loro accoppiamenti, talvolta impudichi, con pensieri, opere e missioni d'arte. Quei traditori di se stessi che lasciano naufragare il «sogno del romanzo perfetto» imbarcando il proprio io fluido, ingombrante, eppure vitale. Che fanno dello scrivere una scienza inesatta, in cui tecnica e sistemi sottostanno alla personalissima legge dell' «esprimere con precisione il proprio modo di essere nel mondo».
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