giovedì 8 marzo 2012

Scrittrici in incognito, contro il pregiudizio


Donne e scrittura. Un binomio che non è mai stato facile coniugare. Né oggi, né in passato. Jane Eyre, Cime tempestose, L’inquilino di palazzo Wildfell: capolavori della letteratura di tutti i tempi, romanzi che abbiamo letto o sentito nominare.
Eppure pochi conoscono i retroscena delle tre donne che li scrissero. Storie drammatiche e appassionate, costellate di dolori, privazioni, rinunce, povertà, solitudine, morte; ma anche di passioni, sogni, speranze, ambizioni. E molto coraggio. Lo stesso di tante altre scrittrici che, soprattutto nei secoli scorsi, videro la propria espressione letteraria ed artistica ostacolata da dogmi, pregiudizi, ideologie.
Nascere donna nell’Inghilterra dell’Ottocento significava infatti non avere quasi alcuna possibilità di fama e successo. E crescere in uno sperduto villaggio di campagna, in una famiglia numerosa, rendeva le cose ancora più difficili. Ma Charlotte, Emily e Anne Brontë osarono sfidare il mondo: erano donne ben consapevoli del proprio talento letterario, fuori dal comune. Fu così che non si fermarono davanti ai pregiudizi dell’epoca e, nel 1847, i tre fratelli Ellis, Acton e Currer Bell, pseudonimi dietro i quali si nascosero le tre sorelle, pubblicarono presso due note case editrici londinesi i loro romanzi, sconvolgendo il mondo editoriale e culturale del Paese.
Ma neppure questo evento così importante fu sufficiente a cambiare la vita delle Brontë che, celate dietro un anonimato tenacemente difeso, continuarono a vivere, sognare e scrivere nell’isolamento e nella loro dolorosa solitudine. Le opere, divenute presto classici della letteratura anglosassone, anche se considerate rozze da alcuni critici, furono tuttavia sottoposte a continue controversie: il dubbio se dietro al nome di Bell vi fossero veramente degli uomini, si insinuò per anni negli ambienti editoriali.

Il caso poi di George Eliot, alias Mary Anne Evans, una delle più importanti scrittrici britanniche dell'epoca vittoriana costretta a pubblicare con uno pseudonimo maschile i suoi romanzi, fa “storia”. Eppure, scorrendo i nomi delle narratrici dei secoli scorsi, è facile riscontrare l'abitudine di uno pseudonimo quale stratagemma usato dalle donne per mantenere l’anonimato, per non esser guardate di sottecchi ed essere accettate come scrittrici nel circuito letterario.
Ancora agli inizi del Novecento la donna era prigioniera di dogmi ancorati e non compatibili con l’universo della scrittura: mascherarsi dietro un nome maschile per aggirare la censura sociale e morale che conduceva a una sorta di riprovazione, è stata, in molti casi, l’unica strada percorribile per proporsi in una società maschilista che non riconosceva alla donna talento creativo e professionalità letteraria.
L’erotismo, la passione, il femminismo, la voglia di indipendenza si fusero in una scrittura clandestina perché protetta dall’anonimato di un nome fittizio, funzionale ad evitare lo scandalo negli ambienti di appartenenza, tanto per le donne del ceto medio quanto per quelle di un elevato stato sociale.

Sui pregiudizi che prima del Novecento gravavano sulle donne che scrivevano o dipingevano ma che, per tradizione, avrebbero dovuto invece dedicarsi alla cura della famiglia e della casa, Virginia Woolf scrisse il saggio “Una stanza tutta per sé”, pubblicato nel 1929: consapevole delle enormi difficoltà che una donna doveva superare per realizzarsi intellettualmente e artisticamente, l'autrice ripercorse le vicende letterarie femminili, le loro possibilità (quasi nulle) di essere ammesse ad una cultura di esclusivo appannaggio maschile - come era stato fino ad allora nella società patriarcale - affermando che era necessario rivendicare uno spazio fisico ed il denaro per soddisfare le proprie aspirazioni più profonde. Emancipazione insomma.

Anche in Italia, tra l'Otto e il Novecento, le donne si dedicarono con sempre più frequenza all'attività letteraria ed intellettuale in qualità di scrittrici. Non sempre però viste di buon occhio dai colleghi di sesso maschile, specialmente se alla donna tradizionale, mediterranea, quietamente sottomessa si contrapponeva quella femminista ed indipendente, che rifletteva sulla condizione di oppressione femminile e la denunciava.
Vicende del passato? Non proprio, visto che fino a non molto tempo fa l'editoria ha storto il naso davanti ad un nome di donna. Negli anni '50 e '60 molte scrittrici di fantascienza sono dovute ricorrere a pseudonimi maschili e/o anglosassoni. Il perché è semplice: era scontato che a scrivere e leggere fantasy fossero solo uomini e quando una donna vi si accostava, si credeva lo facesse solo perché stanca dei soliti generi letterari femminili.

Infine l'esempio, assurdo seppur recente, di Joanne Rowling, la cui fama è legata alla fortunata serie di romanzi di Harry Potter, firmati però con lo pseudonimo di J.K.Rowling: il primo lavoro, Harry Potter e la pietra filosofale, terminato nel 1995, venne inviato a tre differenti case editrici, che rifiutarono di pubblicare il romanzo. Due anni dopo, la Bloomsbury accettò il manoscritto chiedendo però all'autrice di utilizzare un nome fittizio: l'editore era infatti preoccupato che il pubblico considerato target del libro, ossia gli adolescenti, accettasse con difficoltà una scrittrice donna. Joanne scelse quindi di usare solo l'iniziale del proprio nome, accostato a quello della nonna, Kathleen, e di firmarsi J. K. Rowling.

fonte: Paola Malcotti (me), l'Adige di oggi, giovedì 8 marzo 2012

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