Vattene, vattene, vattene.
Via dai miei pensieri, dal mio di dentro. E anche dal cervello, da
tutti i sensi del mio corpo. Via, via, via. Non c'è niente di te che
possa godere della mia ospitalità. Soprattutto ciò che potrebbe
trasformarsi in ricordo, rimorso, rimpianto, autolesionismo. Non potrei resistere ai tuoi ennesimi incantesimi. E
nemmeno alle tracce del tuo profumo nell'aria. Non potrei far fronte
alla tentazione di azzerare la mia ragione per buttarmi a capofitto
nella passione. So già quale sarebbe il risultato: mi ritroverei qui
a dirti ancora una volta di andartene.
Ed è questo, in fondo,
l'amore. Un salto nel blu, tra sirene e musiche incantevoli. Per poi
ritrovarsi smarriti in fondo al burrone del quotidiano. E' meglio
allora sognare e disfare da soli al mattino quella finta morte che ci
abbraccia durante il sonno. E' meglio far finta di aver conquistato
vette incredibili tra bufere di neve, nascondendo la testa tra calde
coperte.
Perchè se si ama alla follia, alla follia siamo destinati.
Fino a quando torniamo con un tonfo dal sole al tramonto, dalla luna
che parla.
E soli, soli, soli ci mescoliamo alla normalità
della folla, del tutti-i-giorni-così-va-bene. Perché è lì, tra i
tanti, che non sentiamo l'anormalità delle nostre aspirazioni al di
più. Lì ci abbandoniamo al comun sentire, al comun parlare.
Lì ti
avevo incontrato quel giorno maledetto. Avevo lasciato distrattamente
semiaperta la porta dell'anima. Mi stavo cucinando qualcosa col
cervello. E tu sei entrato, senza bussare. Con le parole che tutte le donne vorrebbero sentirsi dire da un uomo mai visto, mai
conosciuto. Con lo sguardo di un estraneo già conosciuto da tempo al mio cuore.
Vattene, adesso. Vattene,
ti prego. Starò meglio quando la tua sagoma si sarà confusa col
grigio di questa strada. O forse vomiterò addosso a qualcuno la mia
tristezza. Vattene. Quando vedrai il mio numero sul tuo cellulare, ti
prego, respingi la chiamata.
Conosco
la differenza tra amore e pietà.
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