sabato 12 gennaio 2013

"Cacciatori di frodo"

Dodici chilometri sono lo spazio che separa Augusto da sua moglie Elisa. Ogni giorno l’uomo cerca di colmare quella distanza, camminando lungo il binario morto che costeggia il corso del Piave. Il percorso dalla casa cantoniera alla curva, la visione di Elisa distesa sulle rotaie in attesa di un treno inesistente che la uccida, la sigaretta fumata accanto al suo corpo privo di coscienza, sono diventati per Augusto i gesti vuoti di un rituale ossessivo che si ripete da chissà quanto tempo.
 
Molto più di dodici chilometri separano in realtà l’uomo da sua moglie: a dividerli è un passato remoto doloroso e un passato prossimo inaccettabile nella sua insensatezza. Ma il punto di vista della narrazione, che assumiamo anche noi lettori, è quello di un uomo che ha rimosso ciò che è accaduto e vive il presente in un grottesco automatismo. Del dolore e delle colpe passate rimane una “nuvola di acerbe espiazioni” da portare con sé “al guinzaglio” lungo il cammino.
 
In un monologo denso e ininterrotto la coscienza dell’uomo è libera di scorrere, stimolata dall’azione del corpo in marcia sul binario. Noi lettori ci accostiamo con prudenza ad una scrittura complessa, che segue i percorsi contorti della mente del protagonista, ma non possiamo non rimanerne irretiti. Un flusso incandescente di parole, frasi giustapposte per associazione d’idee o ripetute ossessivamente, si intrecciano a formare un monologo-confessione che vibra di sentimenti mai detti.
“[…] adesso che la mia famiglia è un grumo di cenere e niente, ora che la mia famiglia è un grumo di cenere e niente, perché vengo a riprendermi ogni mattina mia moglie che aspetta che il treno le faccia rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume, perché ogni mattina, perché, penso.” (p. 89)
 
Otto capitoli, corrispondenti a otto giorni di cammino e riflessione, conducono al progressivo disvelamento della verità. Come bolle d’aria tornano a galla i ricordi di un passato troppo a lungo dimenticato: il fratello gemello Cesare, figura complessa di vittima e carnefice; Daniele, figlio innocente morto in circostanze misteriose e poi Elisa, le sue crisi di panico e il definitivo annullamento di sé. Al centro si erge solitario Augusto, misero Orfeo che tenta di riportare in vita la sua Euridice. Ma la salvezza non c’è, Elisa dall’inferno non vuole tornare.
 
Grazie ad una scrittura icastica e ad un taglio narrativo quasi cinematografico Alessandro Cinquegrani raggiunge picchi di sconcertante visionarietà. In tal senso risulta di straordinaria potenza la scena apocalittica in cui Augusto scorge i corpi morti delle pecore nel fiume:
“[…] nella distesa d’acqua sporca e lenta, vedo una pecora morta portata dalla corrente, una pecora bianca portata morta dalla corrente, e un’altra sbatte sul muro e procede spinta dalla corrente e un’altra, poi, e altre dieci, e altre cento pecore morte portate dalla corrente e mille pecore morte portate dalla corrente, un’intera distesa di pecore morte galleggianti […]” (pag. 99).
 
"Cacciatori di frodo", finalista al premio Calvino, è un romanzo duro, capace di far risuonare in noi rabbia, impotenza, tenerezza, commozione. È una storia di colpa e di espiazione che, pur nella sua estrema modernità strutturale, ci richiama alla memoria gli archetipi della tragedia greca. E proprio come nella Medea o nell’Edipo re, giunti all’ultima suggestiva pagina del romanzo, siamo costretti a riconoscere con sgomento che il senso di tanto dolore, se esiste, è per l’uomo imperscrutabile.
 

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